Una nuova sfida per l’equipe di cure palliative domiciliari in tempo di COVID-19

A new challenge for a home palliative care team in the time of COVID-19

 

INTRODUZIONE

L’Unità Operativa di Cure Palliative e Terapia del Dolore dell’ASST Nord Milano assiste a domicilio da oltre trent’anni malati in fase terminale nei territori di Milano Città e dei sei Comuni dell’area Nord Milano. Sono circa 350 i pazienti che vengono assistiti annualmente a domicilio, cui si aggiungono 200 pazienti assistiti in regime di ricovero Hospice. Fin dai primi giorni dell’emergenza sanitaria correlata al COVID-19, la nostra equipe si è resa conto che anche il mondo delle Cure Palliative era chiamato a rispondere con misure nuove e straordinarie sotto molteplici profili. In primis, con la consapevolezza e l’accettazione di non essere una realtà che poteva restare indifferente al problema, come confermato dal rilievo di numerosi casi sia in assistenza domiciliare che in Hospice. L’Hospice, caso unico nella realtà milanese, si è completamente convertito all’assistenza di malati affetti da Sars-Cov-2 (1) ma anche l’assistenza domiciliare ha dovuto riorganizzarsi per far fronte all’emergenza iniziata il 23 febbraio 2020 con il primo caso diagnosticato in Regione Lombardia, a Codogno. Fin da subito sono affiorate tra noi infermiere le prime domande e i primi dubbi, ci siamo spesso interrogate su come sarebbe cambiato il nostro lavoro, se il virus sarebbe entrato o non fosse già effettivamente presente nelle case dei nostri pazienti. L’assistenza domiciliare si sviluppa in contesti familiari molto variabili ed una delle caratteristiche fondanti è rappresentata dal libero e sollecitato coinvolgimento di ogni componente familiare e amicale. Le relazioni, infatti, sono il punto di forza di ogni assistenza palliativa e, se in alcune famiglie sono solide e consistenti in altre sono da richiamare, a volte anche da cercare. Era chiaro che per noi si apriva una nuova sfida: accompagnare alla consapevolezza che la lontananza e, per contro, la vicinanza protetta con i dispositivi di protezione individuale, sarebbe diventata una priorità come anche la necessità di limitare, per quanto possibile, il supporto familiare ad un’unica persona vicino al malato (2). Dal punto di vista organizzativo, già prima della pandemia, la giornata di lavoro iniziava con un giro di telefonate a tutti i malati assistiti al domicilio in un’ottica di rimodulazione quotidiana della pianificazione assistenziale relativa a fragilità e bisogni emergenti. Con l’arrivo del COVID-19 queste telefonate hanno assunto un ruolo ancor più fondamentale per quanto concerne la necessità di verificare non solo lo stato di salute del malato e dei suoi familiari ma anche di contenere l’ansia da isolamento, spesso esacerbata dai media, e fornire risposte competenti rispetto alle innumerevoli domande dei familiari. L’organizzazione assistenziale si è modificata anche in base alle indicazioni regionali di limitare all’indispensabile gli accessi domiciliari, privilegiando il consulto e il counselling telefonico (3). D’altra parte, i pazienti in fase avanzata di malattia avevano comunque bisogno di un’assistenza diretta e per questo è stato necessario ridefinire le modalità di visita domiciliare in termini di protezione, sia del personale sanitario che del paziente stesso e del suo nucleo familiare: tutto ciò in un quadro di significativa limitazione dei dispositivi di protezione a disposizione, almeno nella prima parte della pandemia. Per i pazienti affetti da COVID-19 è stato necessario adottare il livello di protezione più elevato: camice idrorepellente, camice monouso chirurgico, doppio paio di guanti, doppia mascherina, visiera, calzari. Da una parte, questi dispositivi offrivano un’adeguata protezione, dall’altra ponevano una barriera al contatto ad una delle principali caratteristiche dell’assistenza palliativa: nei giorni precedenti la pandemia, le famiglie avevano sempre visto il nostro ingresso nelle case “libero” da barriere; la gestualità dell’entrare in “punta di piedi” nei luoghi intimi della casa è stata necessariamente sostituita da presidi che comunicavano allontanamento. Il “tocco”, l’abbraccio, la carezza, lo stringersi le mani sono sempre state parte fondamentale delle cure e, in qualche modo, ci siamo sentite depauperate di uno strumento importante del nostro essere infermiere palliativiste. Siamo state costrette a condividere “a distanza” la nostra parte di professionalità più umana. Le visite nelle case dei pazienti infetti si effettuavano sempre con doppio operatore: questo anche per accertarsi di eseguire in sicurezza le procedure di vestizione e svestizione, che al domicilio risultavano particolarmente complesse anche solo per la frequente limitazione degli spazi ma anche perché comunicavano ulteriore ansia nei familiari. La parola diventava, ancora una volta, un’alleata fondamentale affinché le distanze non prendessero il sopravvento. Noi infermiere abbiamo dovuto sostenere innumerevoli fatiche, che inizialmente prendevano le sembianze di un coro stonato: ognuna dava voce ad una preoccupazione personale, ad un bagaglio di competenze già in possesso ma che dovevano essere ordinate, selezionate, rielaborate e consolidate dalla fiducia reciproca. È stato necessario un tempo di metabolizzazione per affrontare la paura di una malattia così rapidamente letale ed elaborare il senso d’impotenza, i dubbi legati alla poca conoscenza del virus, la mole di informazioni in continua evoluzione. È stato necessario un tempo di rielaborazione del nostro ruolo infermieristico, risultato ogni giorno più chiaro in relazione alla necessità di supportare le famiglie e fornire loro un’adeguata educazione sanitaria composta da informazioni, indicazioni e rassicurazioni, con l’obiettivo di mantenere l’affidamento alle nostre cure. Qualche familiare molto spaventato ha chiesto la sospensione della nostra assistenza per paura del contagio: la strategia, in questi casi, è stata quella di assecondarli garantendo, comunque, la nostra presenza con la telefonata quotidiana. Di seguito riportiamo alcune esperienze di assistenza domiciliare in tempo di COVID-19 che reputiamo particolarmente significative

Paziente VG

V.G. è un uomo di 68 anni, affetto da neoplasia prostatica con metastasi ossee diffuse e cerebrali condizionanti diplopia e grave ipoacusia. Il paziente è assistito a domicilio da tre mesi: di lui si occupano la moglie, di qualche anno più giovane, e il figlio minorenne, psicologicamente fragile. Il paziente è clinicamente stabile ed autonomo tanto che, stante il rischio di contagio, l’equipe aveva inizialmente pensato ad una sospensione dell’assistenza mantenendo un monitoraggio e un counselling telefonico. Nei primi giorni di Marzo 2020 il paziente effettua una visita oncologica ambulatoriale di rivalutazione della malattia; la settimana successiva sviluppa i primi sintomi “influenzali” con febbre e faringodinia. Nell’arco di 48 ore la febbre regredisce ma peggiora l’astenia e compare una modesta e saltuaria tosse secca: si decide, quindi, di effettuare il tampone per SARS-CoV-2. Nelle 48 ore successive la tosse si fa più insistente. L’esito del tampone è positivo: la moglie è sconvolta per il paziente, per il figlio e per sé stessa. Il peggioramento clinico e lo sviluppo di una dispnea importante si realizza in meno di 24 ore. La comunicazione diventa difficile: il paziente viene visitato giornalmente e vengono fornite tutte le indicazioni relative alla necessità di isolamento e protezione dei familiari. Il paziente è sveglio, dispnoico, tossisce, è molto spaventato. Anche la moglie è molto provata. Il figlio è a casa, sta seguendo le lezioni scolastiche online. È necessario affrontare il discorso del setting assistenziale più appropriato perché appare chiara la difficoltà di assistere il paziente a domicilio per i sintomi in rapido e progressivo peggioramento, la presenza di un minore in casa e lo stato emotivo della moglie. Viene proposto il ricovero presso il nostro Hospice, sottolineando che i familiari non potranno accompagnarlo, né tantomeno andarlo a trovare a causa dello stato di emergenza sanitaria. I familiari acconsentono e il medico accompagna il paziente in ambulanza in Hospice, dove giunge in stato di grave sofferenza nonostante la morfina in infusione continua e l’ossigeno ad alti flussi. Il paziente viene sedato e muore nelle 24 ore successive. Questa assistenza ha rappresentato un momento molto difficile anche per gli operatori sanitari che si sono dovuti misurare con l’impotenza, la rabbia, la necessità di sostenere la scelta del ricovero in Hospice, la preoccupazione per lo stato di sofferenza generale per una morte imminente che si sviluppava acutamente in un contesto di isolamento del tutto nuovo, senza lasciare un tempo e uno spazio sufficienti per affrontare decisioni così devastanti per tutta la famiglia.

Paziente GB

G.B. è un grande anziano affetto da neoplasia prostatica in progressione, portatore di nefrostomie bilaterali per ostruzione urinaria e plurime comorbidità. Vive da solo con aiuto inizialmente saltuario da due figlie, una sorella e una numerosa rete parentale. A dicembre 2019 si attiva la nostra assistenza per aggravamento della dispnea correlata ad una grave broncopneumopatia cronica ostruttiva. L’equipe di cure palliative rileva difficoltà ad accettare la prognosi da parte delle figlie: le nostre assistenze sono spesso tratteggiate da compromessi per lasciare uno spazio di allineamento relativamente al tema della terminalità, soprattutto in quelle famiglie dove il distacco dal proprio caro e l’imminente evento di morte sono un dolore che acceca la lettura della realtà. Per questo, nel percorso di Cure Palliative la comunicazione deve essere letta non come un evento puntuale, ma piuttosto come un processo che necessita di spazi e tempi adeguati, al fine di instaurare un rapporto di fiducia che ridefinisce quotidianamente le priorità. Ci sono delle relazioni che ci coinvolgono per alchimie non dimostrabili, assistenze che ci portano a riflettere più volte sul nostro operato, sulle scelte mediche e assistenziali, questa è stata così: speciale. Il paziente più volte annunciava il fine vita con una frase “non sono ancora morto” e spesso, per volere delle figlie, non era possibile assecondare questo suo desiderio di parlare della morte o della paura di morire. Nelle nostre assistenze spesso ci capita di essere fermati dai familiari che vogliono far tacere un urlo, anche liberatorio, di fine vita. Grazie ai numerosi colloqui con le figlie, l’assistenza tuttavia è risultata nel complesso supportata e ben compensata. Nella fase di aggravamento, entrambe le figlie sono state coinvolte direttamente dal contatto con il COVID-19. La prima per la presenza di un figlio con sintomi sospetti, la seconda per aver sviluppato essa stessa sintomi, poi confermati dall’esito positivo del tampone nasofaringeo. In questo contesto il paziente ha espresso il desiderio di poter essere trasferito comunque a casa di questa figlia dove erano presenti nipoti a lui molto legate. A questo punto ci si è posti un grande dilemma etico: assecondare la volontà del malato, trasferendolo tuttavia in un contesto ove era presente un malato accertato, oppure trovare una soluzione alternativa (hospice o supporto di badante), che avrebbe tuttavia sottratto definitivamente il malato all’affetto dei propri cari. Inoltre, il malato era già stato lungamente a contatto stretto con la figlia risultata positiva. Preso atto che il malato si trovava, ormai, in una fase terminale di malattia indipendentemente dal possibile contagio, si è deciso di trasportare il malato a casa della figlia. Nella contingenza dell’emergenza COVID-19 nessuna ambulanza era disponibile e abbiamo deciso, comunque, di aiutare la famiglia organizzando e coordinando il trasporto con la presenza di più operatori della nostra equipe, adottando le misure di protezione individuale necessarie. Ancora una volta abbiamo messo le priorità del paziente al centro del nostro operato.

Paziente VT

V.T. è stato preso in carico a domicilio all’inizio dell’emergenza COVID-19, il 2 Marzo 2020: grande anziano di 94 anni, affetto da leucemia in stato avanzato, caratterizzata da febbre e modesti sintomi respiratori ricorrenti. In casa, il paziente vive con la moglie affetta da grave demenza, entrambi assistiti da tre badanti che si alternano nelle 24 ore. Inizialmente la sintomatologia del paziente viene trattata con terapia antibiotica senza, tuttavia, un significativo beneficio. In accordo con la figlia si decide di eseguire un tampone per COVID-19 il cui esito è positivo, viene comunicato alla figlia telefonicamente. I sintomi del paziente sono discretamente controllati e si decide, insieme alla figlia, di continuare l’assistenza al domicilio anche alla luce del fatto che in quel momento ricoverare il paziente avrebbe comportato di non poterlo più vedere. Il giorno stesso dell’esito del tampone consegniamo alla figlia tutti i farmaci per le eventuali urgenze, corredati da precise indicazioni su come utilizzarli e garantendo il nostro supporto, anche diretto, per qualunque problema fosse insorto. Nelle 48 ore successive il paziente rimane clinicamente stabile e quindi non risulta necessario andare al domicilio per visitarlo. I contatti telefonici, invece, sono molto assidui e tramite questi viene effettuato uno stretto monitoraggio clinico; si offrono consigli di educazione sanitaria, di gestione delle badanti, di corretto utilizzo dei dispositivi di protezione individuale, di indicazioni sull’isolamento e sulla quarantena fiduciaria (4). Il decesso del paziente avviene durante la notte con un passaggio dolce durante il sonno. Gli ultimi giorni l’assistenza è stata, dunque, meno diretta, ma non per questo di meno valore: la figlia si è sentita libera di chiamarci svariate volte, anche per dubbi e domande molto ingenue e semplici; ad ogni telefonata l’infermiera ha cercato di essere quanto più rassicurante possibile, di fornire informazioni chiare e precise e di sostenere emotivamente la figlia così scossa dalla diagnosi di COVID-19. La figlia ci ha sempre visto come risorsa importante, come presenza affettuosa e professionale e ci ha ringraziato molto per essere riuscita a stare a fianco del padre in un momento in cui le notizie di pazienti morti in solitudine riempivano le prime pagine dei giornali.

CONCLUSIONI

Nella criticità e drammaticità della pandemia che ha colpito tutta l’Italia, e in particolare la Regione Lombardia, ci piace sottolineare che tutta la nostra equipe si è sentita chiamata in causa e si è spesa fin da subito nel rimodulare la sua attività al fine di garantire un’assistenza di qualità sempre e comunque, consapevoli dell’importanza del nostro ruolo sul territorio, sia per evitare inutili accessi in pronto soccorso, sia per sostenere pazienti e famiglie così vulnerabili. In un momento di difficoltà estrema, nel quale tutto sembra diventare impervio e nel quale più forte e giustificata è stata la tentazione di semplificare, crediamo che le qualità professionali e deontologiche degli infermieri possano e debbano essere portate in primo piano, praticate e comunicate alla collettività (5). I casi riportati hanno evidenziato la capacità dell’equipe di cogliere la sfida di rimodulare l’assistenza domiciliare in tempo di COVID-19 e il ritorno positivo delle famiglie è stato un’ulteriore conferma del raggiungimento degli obiettivi prefissati.

BIBLIOGRAFIA

  • Pizzuto M, Croce F, Gusella N, Lodi Rizzini SM, Scarani R, et al. Hospice-CoViD: cinque settimane di trasformazione per rispondere ad uno tsunami.
  • Rivista Italiana di Cure Palliative 2020; 2: 70-6 in press
  • Ulteriori determinazioni in ordine all’emergenza epidemiologica da CoViD-19-area territoriale. Regione Lombardia. DGR XI/2986 del 23 marzo 2020
  • Report sulle caratteristiche dei malati deceduti positivi a CoViD-19 in Italia. Istituto Superiore Sanità, 09.04.2020. www.epicentro.iss.it. Ultimo accesso: 19.05.2020
  • Handbook of CoViD-19 prevention and treatment. The first affiliated hospital, Zhejiang University School of Medicine. Traduzione in Italiano e adattamento di: www.evidencebasednursing.it, 2020. Ultimo accesso: 19.05.2020
  • Manifesto deontologico pandemia CoViD-19. FNOPI 2020; www.fnopi.it. Ultimo accesso: 19.05.2020

 

RINGRAZIAMENTI

Si ringraziano per il lavoro d’equipe e il supporto nella stesura del presente articolo il Dr. Roberto Scarani, la Dr.ssa Sara Maria Lodi Rizzini e il Dr. Massimo Pizzuto

Marta Zani

Infermiere, Unità Operativa Cure Palliative e Terapia del Dolore – Hospice, Azienda Socio-Sanitaria Territoriale Nord Milano
RN, Hospice medicine dept., Azienda Socio-Sanitaria Territoriale Nord Milano (Italy)
marta.zani@asst-nordmilano.it

Milena Fragosch

Infermiere, Unità Operativa Cure Palliative e Terapia del Dolore – Hospice, Azienda Socio-Sanitaria Territoriale Nord Milano
RN, Hospice medicine dept., Azienda Socio-Sanitaria Territoriale Nord Milano (Italy)

Michela Dessì

Infermiere, Unità Operativa Cure Palliative e Terapia del Dolore – Hospice, Azienda Socio-Sanitaria Territoriale Nord Milano
RN, Hospice medicine dept., Azienda Socio-Sanitaria Territoriale Nord Milano (Italy)

Francesca Galante

Infermiere, Unità Operativa Cure Palliative e Terapia del Dolore – Hospice, Azienda Socio-Sanitaria Territoriale Nord Milano
RN, Hospice medicine dept., Azienda Socio-Sanitaria Territoriale Nord Milano (Italy)

Antonino Russo

Coordinatore Infermieristico, Unità Operativa Cure Palliative e Terapia del Dolore – Hospice, Azienda Socio-Sanitaria Territoriale Nord Milano
Chief Nurse, Hospice medicine dept., Azienda Socio-Sanitaria Territoriale Nord Milano (Italy)

Franco Rizzi

Responsabile Medico, Unità Operativa Cure Palliative e Terapia del Dolore – Hospice, Azienda Socio-Sanitaria Territoriale Nord Milano
Head, Hospice medicine dept., Azienda Socio-Sanitaria Territoriale Nord Milano (Italy)