La formazione infermieristica raccontata dal primo professore Lombardo di I fascia MED/45

Nursing education narrated by the first MED/45 full professor in Lombardy

Anne Destrebecq

 

È il primo professore in Lombardia di I fascia MED/45 all’Università degli studi di Milano e Presidente del corso di laurea in Infermieristica del Dipartimento di Scienze Biomediche per la Salute. Con un curriculum di tutto riguardo e il piacevole accento a tradire l’origine belga, Anne Destrebecq ci racconta la sua visione della formazione infermieristica, anche alla luce dei cambiamenti dovuti al Covid.

Professoressa Destrebecq, da ottobre lei è professore di prima fascia MED/45, in assoluto la prima in Lombardia. Come ha raggiunto questo obiettivo?
Sono arrivata in Italia, nell’83 – direi che è stata tutta una “storia di cuore”, in più sensi. Ho collaborato all’apertura della cardiochirurgia del Monzino formando prima più infermieri venuti ad addestrarsi in Belgio e successivamente in loco, dovevo fermarmi 3 mesi, ma anche il mio matrimonio mi ha portata alla decisione di restare in questo Paese. Quindi, successivamente mi sono trasferita a coordinare la cardiochirurgia del Centro Malan dell’ospedale San Donato, con la clausola di ritornare successivamente ad occuparmi di formazione: un mio forte interesse già maturato ed esercitato in Belgio. Con la chiusura della scuola infermiere di San Donato mi sono trasferita presso l’azienda ospedaliera San Paolo. Penso di aver raggiunto questo obiettivo attraverso un lavoro intenso, di tanti anni passati prima nel settore clinico e organizzativo e dopo in quello formativo: credo che l’esperienza clinica e organizzativa mi abbia permesso di conoscere la realtà infermieristica dal vivo della pratica professionale, questo background ha reso la mia attività di ricerca e formazione molto aderente alle possibili evoluzioni dell’infermieristica.

Come è “approdata” all’Università?
Ero direttore SITRA al San Paolo, e là ho conosciuto il professor Coggi, anatomopatologo e allora Preside della Facoltà di Medicina. A lui devo l’incontro con il mondo accademico che mi ha portata, nel 2004, a lasciare definitivamente l’organizzazione per la formazione e la ricerca.

Di cosa si è occupata negli anni successivi? Quali sono stati i filoni di ricerca?
Nei anni successivi mi sono occupata di formazione di base e post base, la formazione mi ha sempre appassionato perché ritengo che lo studente nel presente è un ponte tra il passato e il futuro dell’infermieristica e la nostra offerta formativa deve necessariamente tener conto delle necessità odierne che la società individua. Inoltre essere stata vice presidente e poi presidente della commissione nazionale di Infermieristica in seno alla Conferenza Permanente delle Classi di Laurea delle professioni Sanitarie mi ha assicurato un osservatorio privilegiato delle macro questioni di interesse infermieristico a livello nazionale. Oltre alla formazione, ho perfezionato le mie abilità di ricerca, i filoni sviluppati sono stati diversi: la programmazione ed organizzazione dei servizi assistenziali infermieristici con riferimento all’inserimento degli studenti di infermieristica e dei neoassunti. I modelli di ricerca educativa, analisi dei bisogni formativi, competenze irrinunciabili nei diversi livelli di formazione. La validazione di strumenti e di scale di identificazione del rischio clinico oltre a l’approfondimento di aspetti assistenziali/clinici relativi all’area chirurgica, all’area critica ed emergenza e all’ area medica, in particolare nelle cure palliative e la continuità delle cure.

Qui abbiamo uno dei nodi critici legati alla gestione della pandemia, è corretto?
Sì, è corretto. Il Covid ci ha dato qualche insegnamento, e uno riguarda certamente l’importanza di focalizzarsi sul territorio. Nella nostra Università avevamo già precedentemente aggiornati i contenuti della clinica di terzo anno verso approfondimenti degli aspetti cardine dell’assistenza domiciliare, territoriale, della terminalità e del fine vita. Concetti chiari e condivisi da tutti, ma che poi si scontra con la realtà.

Cioè?
In Italia c’è ancora una visione molto ospedalecentrica e facciamo fatica a esternalizzare le offerte formative. Fino ad oggi, abbiamo avuto difficoltà ad avviare convenzioni con le ATS in particolare nella nostra metropoli e quindi raramente, tranne per esempio nelle esperienze svolte con il progetto Erasmus, riusciamo a garantire un tirocinio sul territorio ai tutti i nostri studenti. I neolaureati molto più facilmente troveranno il primo ingaggio lavorativo in ambito ospedaliero piuttosto che nei servizi sanitari territoriali e spesso l’offerta lavorativa in ambito di assistenza infermieristica territoriale o domiciliare non garantisce le sicurezze fiscali presenti nei contesti ospedalieri. Da questo sentire comune ne deriva anche la frequente inclinazione degli studenti che scegliendo il corso di laurea in infermieristica, immaginano il loro futuro sbocco lavorativo in un’assistenza ospedaliera, magari in area critica dove è più spiccato il tecnicismo. Sta a noi, quindi, il grande lavoro di sensibilizzazione delle nuove leve.

Qual è il vostro messaggio?
Spieghiamo che l’infermiere non opera solo in ospedale con un contratto a tempo indeterminato. Enfatizziamo l’analisi del contesto odierno ove nei problemi prioritari non possiamo non riconoscere l’invecchiamento della popolazione, l’incremento delle malattie croniche e delle fragilità di cui la necessità di sviluppare maggiormente il ruolo dell’assistenza infermieristica territoriale. Nell’ambito degli insegnamenti del terzo anno oltre alla palliazione occorre trasmettere conoscenze sull’infermieristica nella continuità delle cure, partendo dalle dimissioni protette fino ad arrivare all’infermiere nelle scuole. C’è tutto un mondo, fuori dall’ospedale, che deve essere considerato e conosciuto. Spetta a noi far comprendere agli studenti che il paradigma è cambiato e che tutti dobbiamo rivedere il nostro orientamento, questo il Covid ce l’ha ben spiegato.

Effettivamente il Covid ha ribaltato anche la visione dell’infermiere presso l’opinione pubblica.
Sì, e anche se adesso c’è un necessario ridimensionamento degli entusiasmi del pubblico, tutti si sono resi conto del fatto che l’infermiere può lavorare su programmi di ampia portata, con un ruolo importantissimo nell’educazione terapeutica. Vorremmo che i cittadini prestino più attenzione al proprio stato di salute, ma per farlo devono essere formati e informati. Se dovessi proporre delle idee per rispondere alla domanda di assistenza proporrei programmi di promozione dell’adozione della figura infermieristica in ambito territoriale e familiare, promuoverei tutti gli aspetti meno ospedalecentrici della professione a favore delle abilità di counseling e di care management che l’infermieristica è più incline a mettere in atto sul territorio, nelle scuole e negli studi dei medici di famiglia.

Avete avuto un calo delle iscrizioni al corso di infermieristica?
Personalmente mi aspettavo una defezione: pensavo che le nuove leve sarebbero state preoccupate e quindi dissuase dall’iscriversi a infermieristica. D’altro canto, c’era anche la possibilità apparentemente più remota che la riscoperta di un nuovo ruolo potesse incentivare i ragazzi a diventare infermieri. Ha vinto questa seconda ipotesi: presso il nostro ateneo, questo anno accademico le domande ai corsi delle professioni sanitarie hanno registrato un lieve calo delle iscrizioni, tranne quella di infermieristica ove abbiamo avuto 105 domande in più dell’anno accademico precedente. Un risultato positivo, anche in termini di immagine.

Quindi i ragazzi hanno reagito positivamente alla situazione.
«Con le lauree anticipate di marzo scorso, abbiamo cercato di fare in modo che i neolaureati venissero inseriti in reparti covid-free, ma non è andata così, almeno non per tutti: qualcuno si è trovato in prima linea. Noi per precauzione avevamo offerto una formazione quanto più dettagliata possibile sul Covid, affrontando ad esempio la vestizione e svestizione. Gli studenti dal canto loro hanno dimostrato forte equilibrio in un clima di incertezza. Adesso è la volta dei ragazzi del terzo anno, che stanno chiedendo a gran voce di riprendere il tirocinio e tornare sul campo. Leggo maggiori perplessità negli studenti del secondo anno, che hanno bisogno di recuperare il contatto umano con i loro docenti e tutor. Ripartiremo quindi, appena possibile e scaglionati, con modalità mista per la teoria, con i laboratori dei gesti in presenza e successivamente con i tirocini».

Come si muoverà l’Università nei prossimi mesi?
«Questa esperienza pandemica ha reso possibile diversi scambi di esperienze e confronto anche interuniversitario. Abbiamo imparato un’altra lezione per necessità, e vogliamo continuare a mantenerla nel tempo. Le Università lombarde hanno fatto rete. Siamo in tanti, ma si lavora in modo univoco. I docenti MED/45 si sono confrontati per trovare soluzioni e condividere strategie didattiche. Tra queste le risorse tecnologiche ci hanno permesso di aprire nuove esperienze formative di simulazione virtuale e di utilizzo delle piattaforme anche per possibili esperienze di telenursing e per le sedute di laurea. Nel contempo tutti, a più livelli, abbiamo visto come la formazione e l’organizzazione debbano seguire la stessa logica. Il bisogno ha dato vita a un cambiamento che spero riuscirà a consolidarsi nel tempo. Stiamo facendo del nostro meglio per formare professionisti preparati e competenti. Mi auguro che la politica faccia la sua parte riconoscendo anche formalmente la professione infermieristica, nell’ottica dei diversi ruoli che potrebbe svolgere in quanto elemento chiave a tutela del diritto alla salute».

Recensione a cura di: Elisa Crotti

Consulente Ordine delle Professioni Infermieristiche (OPI) di Milano, Lodi, Monza e Brianza
Consultant of OPI in Milan, Lodi,
Monza and Brianza