Intervista a Ercole Vellone, quinto infermiere italiano dell’American Academy of Nursing

Interviewing Ercole Vellone, 5th Italian nurse of the American Academy of Nursing

 

Fellow dell’American Academy of Nursing, Ercole Vellone ci ha raccontato il percorso professionale e umano che l’ha portato a un così importante risultato, motivo di soddisfazione e vanto per tutta la professione infermieristica italiana. In una chiacchierata sulla motivazione e le leve che lo hanno guidato giorno dopo giorno, ci ha proposto la sua visione della professione puntando su un aspetto essenziale, ossia l’integrazione fra università e organizzazione, con una parola chiave a fare da protagonista: “coesione”.

Lei è il quinto infermiere italiano Fellow dell’American Academy of Nursing. Come si sente e cosa significa per lei questa nomina?
È sicuramente un riconoscimento importante! L’American Academy of Nursing è un’organizzazione di prestigio e non è facile entrare a farne parte. Poi, in genere, i vari fellow sono quasi tutti americani e questo è un ostacolo in più in quanto spesso è difficile per noi infermieri italiani competere con infermieri americani che sono molto più avanti di noi nello sviluppo dell’infermieristica. Ho vissuto questo riconoscimento come una soddisfazione personale ma, a mio parere, questo riconoscimento è significativo soprattutto per l’infermieristica italiana. Il numero dei Fellow dell’American Academy of Nursing sta crescendo in Italia e ciò significa che anche nel nostro Paese gli infermieri stanno apportando un contributo importante allo sviluppo dell’infermieristica a livello internazionale. Conoscendo i colleghi italiani ed i criteri che l’American Academy of Nursing utilizza per selezionare i fellow, ci sarebbero decine e decine di colleghi che per il loro contributo meriterebbero di diventare FAAN.

Ci racconta il percorso umano e professionale che l’ha portata a raggiungere lo straordinario obiettivo della fellowship?
Il percorso umano e professionale che mi ha portato a diventare FAAN è partito da lontano, forse da quando mi sono diplomato infermiere nel 1988. A quei tempi volevo solo diventare infermiere e fare bene il lavoro che avevo scelto. Poco dopo però, ho avvertito il desiderio di continuare a studiare e quindi già l’anno dopo mi sono specializzato in Nefrologia e Tecniche Emodialitiche e nel 1995 mi sono diplomato Assistente Sanitario. Ma ho capito un po’ di più “cosa fare da grande” durante il corso per Dirigenti dell’Assistenza Infermieristica, negli anni dal 1996 al 1998. Durante questi studi, grazie alla professoressa Julita Sansoni, mi sono avvicinato al mondo della ricerca e ne sono rimasto affascinato. Julita mi ha coinvolto in alcuni studi incentrati sui caregiver di persone con Malattia d’Alzheimer e ho iniziato a capire cosa significasse fare ricerca e produrre dati che potessero essere utilizzati nella pratica clinica. Con lei ho anche avuto modo di conoscere contesti scientifici che in quegli anni erano all’avanguardia rispetto all’Italia. Ad un certo punto mi sono detto: “Da grande voglio fare il ricercatore”. Durante tutto il percorso di studi ho comunque sempre lavorato, a Roma, prima al Policlinico Gemelli come infermiere in ambito internistico e poi all’Ospedale S. Carlo come coordinatore della Cardiologia. Dopo la scuola per Dirigenti ho poi iniziato ad insegnare alla Cattolica e, anche per approfondire le tematiche della ricerca, ho ricompreso fra i miei insegnamenti Metodologia della ricerca infermieristica. Ma la svolta c’è stata nel 2009 quando ho vinto il concorso come Ricercatore presso l’Università di Roma Tor Vergata. A quel punto ho iniziato a fare ricerca a tempo pieno e, grazie alla guida della professoressa Rosaria Alvaro, ho iniziato a dare una risposta ai quesiti di ricerca che mi ero posto durante gli anni della clinica, soprattutto in Cardiologia. Ho studiato il self-care nelle persone con scompenso cardiaco e sono entrato in contatto con autorevoli esperti internazionali, come la professoressa Barbara Riegel della University of Pennsylvania (USA) e la professoressa Tiny Jaarsma dell’Università di Linkoping (Svezia). Con loro ho iniziato un percorso di collaborazione scientifica molto produttivo che due anni fa mi ha visto coinvolto nella creazione dell’International Center for Self-Care Research sponsorizzato dall’Australian Catholic University.

Una serie di risultati importanti, per un percorso molto coinvolgente.
Dopo i primi studi sul self-care, anche altri colleghi italiani sono rimasti “contaminati” da questa tematica. Quindi, la collega Maria Matarese dell’Università Campus Biomedico, ha iniziato a studiare il self-care nella BPCO e il collega Davide Ausili dell’Università di Milano Bicocca il self-care nel diabete. Anche i dottorandi di ricerca in Scienze Infermieristiche e Sanità Pubblica di Tor Vergata hanno proposto nuovi ambiti in cui studiare il self-care e ci siamo quindi orientati verso il self-care nelle lesioni midollari, nelle osteoporosi, nelle malattie del motoneurone, nelle stomie intestinali ed urinarie, approfondendo sempre il contributo del caregiver nel processo del self-care e sviluppando uno strumento per valutare tale contributo nell’ambito dello scompenso cardiaco. Questo strumento è attualmente utilizzato in 12 Paesi. I dati raccolti ci hanno permesso di elaborare una teoria situazionale specifica e a marzo abbiamo avuto l’onore di vedere pubblicato dalla Springer, nel volume “Situation Specific Theories: Development, Utilization, and Evaluation in Nursing”, di Eun-Ok Im e Afaf I. Meleis, due note studiose di teorie, un capitolo sulla nostra teoria. Sono stati gli studi sul self-care ed il contributo nazionale ed internazionale in quest’area di ricerca che l’American Academy of Nursing ha apprezzato nel nominarmi fellow. Gli studi sul self-care mi hanno permesso, poi, anche di diventare professore associato nel 2019.

Con l’attuale emergenza sanitaria, gli infermieri hanno finalmente visto riconosciuto il proprio ruolo e, proseguendo con la campagna vaccinale, saranno chiamati a un sempre maggiore protagonismo. Quali sono, a suo avviso, le sfide che la professione dovrà affrontare?
Penso che le sfide di ogni professionista sanitario siano quelle di produrre esiti sempre migliori sulle persone che si affidano alle nostre cure. Per raggiungere questo obiettivo, però, dobbiamo investire di più nella ricerca infermieristica ed il Dottorato di ricerca è sicuramente un’esperienza formativa che tutti gli organi professionali, la FNOPI, i vari OPI ed associazioni professionali dovrebbero promuovere. Anche la formazione post dottorato, il cosiddetto assegno di ricerca, è importantissimo perché con il dottorato e con il post dottorato si crea l’accademia infermieristica del futuro e solo in questo modo possiamo dare gli strumenti per conseguire l’Abilitazione Scientifica Nazionale e quindi preparare alle posizioni per ricercatore e professore universitario. Un’altra sfida è poi sicuramente la formazione avanzata/specialistica per gli infermieri. Le evidenze dimostrano che gli esiti prodotti dagli infermieri con formazione avanzata sono migliori rispetto a quelli prodotti da infermieri con formazione generalista. Tuttavia, se questa formazione avanzata/specialistica non viene riconosciuta anche economicamente, trovo difficile che i colleghi siano stimolati a “specializzarsi”. Quindi penso che le sfide del futuro saranno quelle di fare in modo che gli infermieri possano non solo conseguire master di primo e secondo livello in aree cliniche e/o organizzative ma anche conseguire delle specializzazioni in queste aree. Questo ci consentirebbe di acquisire una vera leadership professionale che porterebbe anche al giusto riconoscimento sociale ed economico.

Quali ritiene saranno nel prossimo futuro gli aspetti vincenti a livello organizzativo sui quali la professione dovrà concentrarsi?
A livello organizzativo penso sia importante che i colleghi dirigenti gestiscano autonomamente l’assistenza infermieristica. Ritengo che gli attuali dirigenti debbano avere la piena autonomia per orientare l’assistenza impiegando al meglio le risorse disponibili. Inoltre, sarebbe opportuno che i colleghi dirigenti vengano coinvolti attivamente nei dottorati in cui vengono formati infermieri. In tal modo verrebbe data loro la possibilità di proporre linee di ricerca cliniche e organizzative che possano essere strategiche per gli obiettivi delle aziende sanitarie. Questo favorirebbe, a mio parere, la qualità dell’assistenza e la motivazione degli infermieri di cui in questi tempi abbiamo tanto bisogno.

E a livello formativo?
Ritengo sia fondamentale che in tutti gli atenei italiani in cui ci sono corsi di laurea in infermieristica sia triennali che magistrali, ci siano professori e ricercatori di scienze infermieristiche. È impensabile che la metà degli atenei italiani dove si formano attualmente gli infermieri, non abbia ancora un docente strutturato di MED/45. I docenti professori e ricercatori MED/45 sono solo 41 in tutta Italia (ricordo che anni fa, quando visitai l’University of Pennsylvania a Filadelfia, 41 erano i docenti solo di quell’università!), ma abbiamo altri 31 colleghi abilitati a professore ordinario e associato che potrebbero essere chiamati. Ciò dimostra che gli infermieri italiani stanno sviluppando molto le competenze scientifiche e possono a pieno titolo ricoprire posizioni di docenza universitaria. Spero che gli Atenei dove ancora non ci sono docenti strutturati MED/45 possano al più presto comprendere l’importanza di avere infermieri accademici. Il che significa non solo gestire meglio la formazione infermieristica nell’università, ma anche avere più ricerca infermieristica che può e deve essere fatta solo da infermieri. Solo con la ricerca infermieristica possiamo capire alcuni bisogni della persona sana o malata e possiamo valutare se gli interventi che gli infermieri applicano sui pazienti funzionano. La ricerca va infatti pensata al letto del paziente. Ad esempio, a Tor Vergata con il trial MOTIVATE-HF, abbiamo osservato che l’educazione dei pazienti con scompenso cardiaco, non solo migliora il self-care, ma migliora la qualità di vita e diminuisce e mortalità. Questi risultati, dimostrano che gli infermieri producono salute e benessere per la popolazione! Inoltre, sarà vincente per il futuro riuscire ad avere in tutte le realtà l’integrazione tra il mondo organizzativo ed il mondo accademico! E quindi tra dirigenti dei servizi, direttori dei corsi di laurea e docenti di infermieristica. Sinora questi due contesti sono rimasti spesso separati ma proviamo a pensare come sarebbe più facile sviluppare una ricerca e una sperimentazione coinvolgendo dagli studenti ai colleghi infermieri che operano sul campo. Sarebbe uno sviluppo circolare della ricerca che potrebbe essere proposta da chi osserva direttamente il problema sul campo, che diventa oggetto di studio per l’infermiere ricercatore, i cui risultati verrebbero poi restituiti agli infermieri clinici e dirigenti che li utilizzerebbero per migliorare l’assistenza.

Che messaggio vorrebbe dare ai nostri iscritti?
Il messaggio che mi sento di dare agli iscritti è che dovremmo cercare di curare sempre di più le nostre competenze e di crescere nell’essere un gruppo di professionisti coeso. Mi riferisco alla coesione tra i diversi profili di infermiere, in senso “orizzontale” e “verticale”. Penso alla coesione e collaborazione che può esserci tra l’infermiere clinico, l’infermiere dirigente, l’infermiere ricercatore e l’infermiere professore. Siamo tutti infermieri ma ognuno ha sviluppato specifiche competenze in un ambito dell’infermieristica. Se questi “diversi infermieri” fossero più coesi e collaborassero, sarebbe inimmaginabile il beneficio che potremmo apportare alla salute delle persone. Questo dovrebbe diventare, a mio parere, l’infermieristica del futuro: un gruppo di infermieri che comunica attivamente valorizzando ognuno il contributo di tutti.

A cura del Consiglio Direttivo
By the Board of Directors