In missione in Tunisia per salvare i piccoli pazienti cardiopatici

Mission to save children with congenital heart disease

Cambiare prospettiva, modificare il proprio modo di lavorare basandosi sull’adattamento, rivedere i propri obiettivi. Una missione all’estero, per portare la professionalità infermieristica in

Frigorifero per la conservazione del sangue

aiuto degli altri, fa questo effetto: spinge a mettersi in gioco, anima e corpo.
Chi si adatta non solo sopravvive, ma vince. Il premio è immateriale e ad altissimo valore: soddisfazione, sensazione di avercela fatta e tanta voglia di andare avanti, fare sempre di più, ma a piccoli passi.
Il racconto di Giovanni Cristoffanini, una settimana all’anno volontario in Tunisia e nella vita infermiere di rianimazione presso il presidio San Carlo dell’Azienda Ospedaliera Santi Paolo e Carlo di Milano, ci ha aperto uno spiraglio su un mondo geograficamente vicino ma culturalmente tanto lontano da evocare emozioni contrastanti: curiosità e sdegno, frustrazione e caparbietà. E alla fine il cerchio si chiude, perché chi salva un bambino, salva il mondo intero.

Giovanni, raccontaci la tua esperienza. Come nasce l’idea di partire in missione?
«Nasce assolutamente per caso. Sette anni fa vengo contattato da Carla Corti, cardiologa pediatrica del Buzzi. La proposta è semplicissima: con un’associazione del sud milanese un’equipe di tecnici partirà per Tunisi, dove nell’arco di una settimana opererà quanti più bambini cardiopatici possibile presso un ospedale pubblico. Manca all’appello un infermiere di rianimazione. “Vuoi essere dei nostri?”, mi chiede Carla. Ero non solo perplesso, ma addirittura titubante: con il professor Fantoni, avevo fatto molta rianimazione pediatrica, ma non avevo esperienza su bambini cardiochirurgici così piccoli, in situazioni così complesse. Mi faccio coraggio, mi dico: “Ci provo”, e mi metto in viaggio»

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Quanti eravate?
«Pochi: un cardiochirurgo che operava con chirurghi tunisini non specializzati in ambito pediatrico, e un’equipe mista di infermieri cardio-rianimatori, cardio-anestesisti, un cardiologo e un perfusionista. Una manciata di persone, ma ben determinate. Dal canto mio, io partivo con un obiettivo preciso: insegnare al personale locale la rianimazione pediatrica».

Obiettivo raggiunto?
«Neanche lontanamente. Non potevo immaginare cosa avrei trovato al di là del mare, a un passo da noi. L’ospedale era una sorta di struttura pubblica gestita dalla mutua locale. Oggi qualcosa è migliorato, ma allora non avevano né tecnologie, né forze, né visione. C’era molto pressapochismo, l’igiene scarseggiava, i bambini morivano per errori banali, come tubi di ventilazione piegati, potassio infuso in bolo endovenoso, incuria e poca pulizia. Io rimanevo di sasso. Quando cercavamo di dare consigli, con tutta l’attenzione del caso, venivamo guardati con disprezzo, e la dinamica era spesso prevedibile: le voci si alzavano fastidiosamente, dal francese gli interlocutori passavano all’arabo e poi letteralmente uscivano di scena urlando. Complici le notti freddissime e i giorni soffocanti, alla fine del primo viaggio ero a pezzi, fisicamente e moralmente».

Cosa hai pensato al rientro?
«Ho pensato: “Ottimo, l’esperienza è chiusa, io ho finito, mi fermo qui”. Poi, a mente fredda, ho iniziato a rileggere quella missione con occhi diversi. Il mio obiettivo era formare persone che magari non avevano né interesse né voglia di essere formate. Già qui stava un errore. Inoltre, mi concentravo su quel che mancava, su quel che avrebbe dovuto esserci, e non sul vero motivo per cui io mi trovavo a Tunisi».

Quale?
«Il più semplice e scontato per un infermiere: salvare persone. Nel mio caso addirittura bambini. E in quella prima missione di bambini ne avevamo salvati sei. Sei su otto. Qui sarebbe poco, là, in quelle condizioni, anche in considerazione di come arrivavano a noi i piccoli pazienti, magari dopo mesi in cui si sospettava un disturbo gastrico e invece funzionava un solo ven

Trasporto “protetto” di bimbo post arresto cardiocircolatorio

tricolo e il bambino giungeva già scompensato, bene, in quelle condizioni sei su otto era quasi un miracolo. Non c’erano stati due morti, c’erano stati sei vivi. Con questi pensieri in testa, un anno dopo mi arriva la seconda chiamata».

E sei partito.
«Sono partito con un altro spirito: salveremo più bambini possibile, cercheremo di ridurre al minimo gli errori, ci muoveremo diplomaticamente, in punta di piedi. In quest’ottica, è stata tutta un’altra esperienza. È vero, in missione il problem solving è al di là della normalità, la diagnostica è ridotta all’osso perché costosa e complessa, e si fa tantissima clinica. I tempi per gli esami sono lunghissimi, il gruppo sanguigno è scritto a mano non si sa da chi, a matita, sulla cartella clinica, ma non è mai stato determinato il fenotipo quindi l’effettiva compatibilità si verifica a occhio, su un vetrino, e si spera per il meglio. Sì, ho dovuto mettermi in discussione e imparare ad accettare queste condizioni per portare a casa il massimo possibile».

Suppongo che se sei qui oggi, è perché ci sei riuscito. Quindi, cosa hai portato a casa?
«Moltissimo, professionalmente e umanamente. Professionalmente il peso e il valore di collaborare con grandi professionisti, esperti e riconosciuti, provenienti da contesti diversi, ma tutti con un obiettivo comune. Riconoscersi tra professionisti, comprendere ciascuno il valore dell’altro, è non solo gratificante ma direi addirittura premiante. Poi, indubbiamente, c’è l’aspetto umano, più facile da cogliere».

Ti ha colpito qualche storia?
«Ho rincontrato durante una missione una bambina che avevamo seguito anni prima. Abbiamo fatto una videochiamata nel deserto ai suoi parenti, erano tutti felici. È stata

Il reparto

una grande emozione: rivederla colorita, bella, allegra, dopo averla lasciata ancora intubata poco tempo prima, mi ha contagiato di gioia. Ma la storia che mi ha coinvolto di più è stata un’altra».

Ce la puoi raccontare?
«Volentieri. Conservo ancora le foto nel cellulare. Era una missione molto intensa, avevamo da operare 12 bambini in una settimana. Il penultimo giorno ci capita questo piccolino, di due anni, non grave dal punto di vista clinico ma per una serie di “sfortune”, non saprei come altro definirle, ecco che gli capitano tutte le complicanze del mondo. A quel punto il tuo pensiero si ribella, non lo accetta, la sfortuna no. E così il primario di cardiorianimazione che lo ha in cura prende a cuore il bambino, convintissimo che in Italia potrà salvarlo, e decide di trasferirlo a Genova. La telefonata in Italia viene fatta il venerdì sera. “Portatecelo in condizioni di volare domani”, ci dice. È stata una notte di passioni, perché le sfide non erano ancora finite. Alle dieci in punto arriva un cuore da un donatore per un cardiopatico in lista d’attesa, e nell’ospedale tutti sono trepidanti: è il terzo trapianto di cuore effettuato nella struttura. C’è il Gotha dell’ospedale, il personale è in subbuglio. Nessuno più si occupa del bambino, ci sono solo io nella stanza».

Una bella responsabilità.
«Sì, soprattutto per via delle sue condizioni e della partenza imminente. L’ho gestito da solo, tutta la notte, con il cuore in gola. Al mattino alle 11.30 era sul volo sanitario per Genova. Lascio l’ospedale alle 16, alle 17.30 mi imbarco sul mio aereo. Pochi giorni dopo mi arriva la foto del piccolo, seduto sul lettino, a dorso nudo e con un pannolino azzurro, che sorride, salvo. Unico segno della sua storia, la cicatrice sul petto. Quella foto, quella vita, è valsa tutti i sette anni. Ecco perché oggi sono qui a parlare della mia esperienza. Perché non ha valore, perché ciascuno potrebbe dare un contributo enorme ad altri essere umani, e ricevere in cambio mille volte ciò che ha offerto».

Elisa Crotti

Consulente Ordine delle Professioni Infermieristiche (OPI) di Milano, Lodi, Monza e Brianza
Consultant of OPI in Milan, Lodi, Monza and Brianza