Il lato oscuro dei social network: facciamo luce

The dark side of social networks: shedding light

 

Sono una docente che si occupa di comunicazione e spesso nelle mie lezioni, prima di aprire le porte sulle meraviglie di questo universo, prima di far vedere l’enorme potenzialità delle tecniche comunicative e la grande capacità che la buona comunicazione ha di cambiare le nostre vite, preferisco soffermarmi sui problemi della comunicazione. Innanzitutto, che è complessa, che richiede uno sforzo immane per declinarsi sull’altro, che spesso “non funziona”, perché il messaggio ha maggiori possibilità di essere frainteso – almeno in parte – piuttosto che essere compreso al primo colpo.
Questo è per me un passaggio importantissimo per mantenere lo spirito critico, per abbracciare il mondo della comunicazione non come nella fase di innamoramento, che ci fa vedere solo i pregi dell’altro, ma attraverso un approccio maturo e disincantato perché poi, comunque, l’amore sboccia lo stesso, ma in modo consapevole.
Parallelamente, in questa sezione di IJN in cui ci occuperemo dei social media e del loro grande potenziale, prima di addentraci sulla capacità di ispirare, motivare, convincere, generare conoscenza, appassionare e orientare il comportamento – tutti aspetti importantissimi per un infermiere che voglia fare prevenzione e assistenza utilizzando al meglio gli strumenti di cui dispone – vorrei in questa occasione soffermarmi sulle criticità e i rischi. Ciò non allo scopo di demonizzare i social media ma, al contrario, con l’obiettivo di esplorarli in tutta la loro complessità, mantenendo sempre aperta una riflessione sugli aspetti critici e i lati più oscuri, per poi tuffarci con sicurezza ed entusiasmo nelle infinite possibilità.
Non solo: conoscere i rischi dei social media significa anche intercettare e aiutare a risolvere, nei nostri pazienti, nei nostri cari ma anche in noi stessi, quei problemi spesso sottovalutati che la grande connessione sempre più spesso crea.

 

La portata del fenomeno: numeri inimmaginabili

Quante persone usano i social media? I numeri sono impressionanti.
Secondo uno studio di Kepios, nel 2023 il numero di utenti attivi dei social è di 4,88 miliardi, il 60,6% della popolazione mondiale che, in base a una stima ufficiale delle Nazioni Unite all’inizio del 2023, ha raggiunto 8,01 miliardi di individui.
Una cifra impressionante, soprattutto se la si confronta con il numero di persone che utilizzano Internet nel mondo, pari al 64,5% della popolazione globale, ossia 5,19 miliardi. Non ci vuole un matematico per comprendere che quasi tutti coloro che sono connessi, usano i social.
Per quanto riguarda i più utilizzati, bisogna sapere che gli utenti dei social frequentano in media più di sette piattaforme. Meta, di proprietà di Mark Zuckerberg, possiede tre delle app preferite, ossia WhatsApp, Instagram e Facebook. La Cina vanta tre piattaforme: WeChat, TikTok (un vero boom generazionale anche nel nostro Paese) e la sua versione locale che si chiama Douyin. Twitter, Messenger e Telegram completano la lista delle piattaforme più amate, con la prima in lieve calo.

 

Un piccolo borgo in una grande rete

Primo controsenso: in questa gigantesca rete mondiale, si ripete il modello del borgo medievale, passatemi l’espressione. Infatti, nonostante il moltiplicarsi delle bacheche virtuali, l’intera rete dei social network sembra poggiare sul modello matematico del “piccolo mondo”. Una recente ricerca pubblicata su Physical Review X ha dimostrato infatti che anche in queste piattaforme vale la teoria dei sei gradi di separazione elaborata nel 1967 dallo psicologo americano Stanley Milgram, per cui bastano sei passi virtuali per raggiungere una persona.
Siamo vicini, anzi vicinissimi. E questa vicinanza, come nei borghi medievali, può rappresentare una grande opportunità per la risoluzione dei problemi, ma può essere anche foriera di malessere, controllo sociale, ansia, desiderio di appartenenza e insoddisfazione. Come? Lo vediamo subito, le ricerche in merito sono ormai numerosissime.

 

Una finestra su alcuni dei possibili mondi

Se avete più di venticinque anni, cosa altamente probabile considerato che state leggendo questa rivista (ma magari no, visto che è ripostata nei social network e i nostri gradi di separazione sono al massimo sei) è molto probabile – questo sì – che vi siate sempre considerati abbastanza immuni dalle problematiche psicologiche generate dal vostro uso magari non massiccio dei social. Questo è un vecchio “trucco” della comunicazione: ne intuiamo le regole e crediamo di non esserne condizionati; e invece, ecco che cadiamo nella rete, inconsapevolmente.
Faccio un esempio per chiarire: una bella pubblicità è una forma di comunicazione che nasce allo scopo di vendere un prodotto. Per questo, deve un creare un bisogno, stimolare il desiderio, accendere un’emozione (quale, è sempre una scelta complessa ma molto affascinante), spingere all’acquisto e portare la persona a infilarsi la giacca, uscire e comprare. Detta così, la riconosciamo tutti, l’influenza della pubblicità, no? E quindi sentiamo di non esserne condizionati.
Invece, ecco che questa forma di comunicazione si muove anche su binari paralleli, non tanto evidenti: condiziona il modo in cui percepiamo la realtà (pensate solo al concetto di famiglia dello spot sulle pesche Esselunga rispetto ai vecchi spot del Mulino Bianco), in cui “vediamo” gli oggetti e ci poniamo nei loro confronti. La pubblicità condiziona la società, i consumi, la propensione all’acquisto. Ci “insegna” a usare prodotti che mai avremmo immaginato di desiderare – pensate, e mi rivogo soprattutto alle donne, ma gli uomini sono a stretto giro di boa, ai prodotti che vi vengono consigliati per una beauty routine giornaliera; quanto è cambiato negli ultimi dieci anni? E tutto questo è frutto non di un persuasore occulto, ma di una forma di comunicazione che chiarisce prima ancora di emettere il messaggio, che il suo obiettivo è venderci qualcosa.
Ora, lascio a voi il parallelismo con i social media, dove il persuasore è certamente più occulto. Chi ha scritto l’articolo che sto leggendo? Chi ha convinto e come quell’influencer a indossare quel cappotto? Chi, come e con quale scopo ha generato quella fake news? Perché io riesco ad andare in vacanza una volta all’anno, magari pure con la pioggia, e quel personaggio è in viaggio una volta al mese? Come mai le mie torte non sono mai belle come quelle di Instagram? E poi, perché con il limone e il bicarbonato si sconfiggono le malattie più terribili?
I social sono una finestra sul mondo, dove guardare ed essere guardati, ma anche persuadere ed essere persuasi… con le inevitabili conseguenze.

 

Tanti studi, risultati da condividere

Abbiamo capito che siamo più disarmati di quanto immaginiamo rispetto al potenziale di influenza dei social media. In cosa si traduce tutto questo? Molti sono gli studi che hanno voluto dare una risposta alla fatidica domanda e finalmente abbiamo sul tavolo i rischi dell’uso dei social. Conoscerli significa poterli gestire, almeno in parte, perché l’alchimia della comunicazione ha sempre una componente istintiva, più oscura, che sfugge al controllo.

 

 

La sovraesposizione

Incominciamo dalle cose facili, quelle più evidenti. C’è chi fa un uso molto oculato dei social media, pochi minuti al giorno giusto per leggere qualche notizia o scambiare due parole, e chi invece è letteralmente immerso in questo mondo.
Ed è qui che nascono i primi problemi, come l’Internet Addiction Disorder. Con quest’espressione ci riferiamo a una dipendenza da Internet, riconosciuta da anni come disturbo mentale. L’IAD si presenta quando le attività svolte online vanno a interferire in modo opprimente con la vita quotidiana. Esistono varie categorie riconducibili a questo tipo di dipendenza: gaming, social networking, blogging, fino all’online shopping compulsivo.
Il termine nomofobia, invece, o “NO Mobile Phone PhoBIA” viene impiegato per descrivere una condizione psicologica che può svilupparsi in tutti i soggetti che manifestano l’irrazionale timore o la paura di rimanere disconnessi. Pensate a quando dimentichiamo lo smartphone a casa – se ancora a qualcuno succede – o a quando arriviamo in una località dove non c’è la linea. Qualcuno la vive bene, qualcun altro non riesce ad accettarlo. Alcuni autori descrivono la nomofobia come la condizione caratterizzata dalla presenza di sentimenti di discomfort, ansia, nervosismo o distress. Il malessere che ne deriva varia da persona a persona e può prendere toni anche molto bui.
Infine, abbiamo il phubbing, il neologismo con cui ci si riferisce all’abitudine di snobbare la compagnia degli altri, specie in contesti informali come un’uscita di gruppo o un appuntamento con il partner, preferendo utilizzare lo smartphone o altri device digitali. In sostanza, non esco e passo la serata con il mio amato cellulare.
Tutte queste condizioni sono facili da riconoscere e possono quindi essere gestite. 1-0 per l’umano.

 

 

Il dark side dei social: il confronto e l’autostima

Con il termine F.O.M.O entriamo più a fondo nel lato più oscuro, meno intuitivo dei social network. F.O.M.O. sta per Fear Of Missing Out (paura di perdere qualcosa). Si tratta di una sensazione di ansia o di preoccupazione che una persona prova quando teme di essere esclusa da eventi sociali, esperienze divertenti od opportunità interessanti che gli altri sembrano stiano vivendo. Nei social network, il F.O.M.O. può essere alimentato dalla visualizzazione delle vite apparentemente perfette o emozionanti degli altri utenti attraverso le loro pubblicazioni, portando le persone a sentirsi inadeguate o a desiderare di essere parte di ciò che vedono online. Qui andiamo evidentemente più sul sottile.
Il fatto di essere sottoposti con continuità a professionisti con curricula da capogiro (pensate a Linkedin, sembrano tutti i massimi esperti del proprio settore), a sportivi con tabelle di allenamento alla Rambo, a cuoche che infornano prelibatezze impiattate come solo Cracco saprebbe fare, a donne della nostra età che sembrano nostre figlie e ognuno pensi alle proprie passioni e a ciò che trova sui social; ecco, il fatto di essere sottoposti costantemente a persone più brave, belle, ricche, intelligenti, preparate, competenti, mondane, brillanti di noi, ha un effetto sull’autostima. Non solo, quindi, mi spinge nella direzione del F.O.M.O., ma mi abbatte.
Questo è dovuto all’effetto noto come filtro della realtà. Spesso, infatti, gli utenti pubblicano solo i momenti migliori delle loro vite, creando una versione patinata e idealizzata della realtà (non vi ricorda, per chi c’era, le pubblicità degli anni Novanta?); il che può farci ritenere le nostre vite non altrettanto interessanti o apprezzabili, contribuendo a sentimenti di bassa autostima.
Non è tutto: anche ricevere “mi piace” e feedback positivi può creare i suoi problemi; un bel paradosso, per ricordarci che la comunicazione ha le sue leve oscure. Secondo una ricerca dell’Università di Pittsburgh e dalla Columbia Business School, una pioggia di “mi piace” o di commenti positivi sull’ultimo post di Facebook rischia di far impennare l’autostima dell’autore, influenzandone il comportamento. Sì, avete capito bene, arrivando a condizionarne il comportamento. Ed ecco che si scopre che il pericolo è quello di vedere sbriciolarsi l’autocontrollo, sul web e fuori, con il rischio di ritrovarsi ad accumulare chili e debiti.
Lo studio su un totale di più di 1.000 utenti di Facebook, ha monitorato abitudini e impiego del social network, insieme a stili di vita, personalità e autostima. Quel che è emerso è dirompente: il maggiore utilizzo del social è associato a un più alto indice di massa corporea, un aumento del binge eating (le scorpacciate compulsive) e al fatto di “sforare” con le spese della carta di credito.
C’è ben altro: non possiamo non menzionare la dismorfofobia, sapendo che questa è una questione che riguarda soprattutto i giovani anche se, ancora una volta, nonostante tutta la body positivity del caso, pare che le persone sovrappeso abbiano maggiori difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro. La dismorfofobia porta la persona a essere fortemente preoccupata per i difetti percepiti nel proprio aspetto fisico. Va da sé come i social media giochino un ruolo importante, in primis mostrando immagini ritoccate e filtrate di persone che soddisfano gli standard di bellezza convenzionali. Inoltre, incoraggiano l’auto-presentazione e l’autopromozione, che possono portarci a mostrare solo i nostri aspetti migliori e a nascondere le imperfezioni. Questo crea un’ulteriore pressione per soddisfare gli standard di bellezza e contribuire all’eccessiva preoccupazione del proprio aspetto fisico. Ma esiste anche una dismorfofobia legata all’ambito professionale, dove il senso di inadeguatezza non riguarda tanto il corpo, quanto le competenze.
A questo punto non siamo certamente a 2-0 per l’umano: la partita è tutta da giocare. Occorre infatti un grande lavoro su noi stessi per non lasciarci condizionare dagli effetti dell’uso dei social, nonché per aiutare i nostri pazienti a identificare e affrontare quanto descritto.
Con consapevolezza e un velo di amarezza “severo ma giusto”, andremo nel prossimo numero a esplorare le potenzialità e la grande bellezza di queste piattaforme di comunicazione dalle possibilità infinite. Un viaggio affascinante, attraverso le relazioni umane, dove sviluppare connessioni, cercare soluzioni ed esprimere l’identità della professione.

 

BIBLIOGRAFIA

  • Aarif Alutaybi et al., 2020. “Combating Fear of Missing Out (FoMO) on Social Media: The FoMO-R Method”, Int J Environ Res Public Health. 2020 Sep; 17(17): 6128.
    Simon Kemp, 2023. Digital 2023 global overview report, www.wearesocial.com.
    Venetia Notara et al, 2021. “The Emerging Phenomenon of Nomophobia in Young Adults: A Systematic Review Study”, Addict Health. 2021 Apr; 13(2): 120–136.
  • Ivan Samoylenko et al, 2023. “Why Are There Six Degrees of Separation in a Social Network?”, Physica Review X 13, 021032.
  • Keith Wilcox & Andrew T. Stephen, 2013. “Are Close Friends the Enemy? Online Social Networks, Self-Esteem, and Self-Control,” Journal of Consumer Research, Oxford University Press, vol. 40(1), pages 90-103.

 

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Elisa Crotti

Consulente Ordine delle Professioni Infermieristiche (OPI) di Milano, Lodi, Monza e Brianza
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